by Mario Calderini.
La Repubblica, 29th July 2020
Arrabbiato non tanto perché il suo vicino è più ricco di lui, quanto perché da troppo tempo si sente sempre più povero in una comunità sempre meno ricca. Questo è il ritratto e la geografia del malcontento che Andrés Rodriguez Pose dipinge sulla Public Policy Review di London School of Economics, mettendo in discussione l’ipotesi che la rabbia sociale e il voto populista siano prevalentemente spiegati dalle crescenti diseguaglianze economiche tra gli individui. In sostanza, si sposta l’attenzione dalle diseguaglianze individuali e territoriali alle prospettive di crescita sociale ed economica dei luoghi e delle comunità, in particolare di quelli che sono stati ricchi di industria ma che oggi chiamiamo “luoghi che non contano più”, come la Rust Belt americana o il nord di Inghilterra e un bel pezzo di quello italiano. Questa dimensione geografica e collettiva del malcontento dovrebbe suggerire una lettura politica un po’ più sofisticata di quella esclusivamente basata sulle caratteristiche individuali delle persone – sociali, culturali o economiche – che la sinistra paternalista da un lato e le diverse forme di populismo dall’altro hanno sistematicamente utilizzato. La vera questione politica in tempi di recovery fund è riportare le comunità e i luoghi al centro dell’agenda di sviluppo, senza gabellare il decentramento politico per attenzione ai territori o rivendere idee di terza mano come i distretti industriali o le valley dell’innovazione. Un cambiamento di prospettiva vieppiù urgente se messo sullo sfondo della forza propositiva che, proprio nei luoghi, si sprigiona attraverso la trasformazione dei modelli di impresa, sia tradizionale sia sociale e cooperativa, cui molti si riferiscono con l’espressione impresa di comunità o con la quasi utopistica astrazione del community capitalism. Se da un lato la risposta viene dagli innovatori sociali che ripopolano le aree interne o dalle iniziative come Consegne Etiche o Humus Job che provano, nei luoghi, a restituire dignità alle consegne di cibo o al lavoro agricolo, dall’altro le imprese interpretano in chiave sempre più locale e comunitaria il valore strategico della sostenibilità, attraverso una ricerca di consenso e integrazione nelle comunità che richiede modelli di ingaggio più sofisticati del solo welfare aziendale, della filantropia delle fondazioni o del modello Olivettiano.
Il capitalismo di comunità ha ancora forme acerbe ma innovative come il modello di Buurtzorg, l‘impresa olandese di assistenza e cura, strutturato in microimprese comunitarie di infermiere, caregiver e familiari che si ricompatta solo al bisogno in forma di impresa tradizionale per condividere competenze, tecnologie e lavoro amministrativo. Un modo originale di coniugare profitto, cooperazione, mutualismo e beni relazionali non diverso da quello della cinese Haier, il colosso mondiale degli elettrodomestici che ha trasformato la tradizionale struttura di impresa in un gigantesco ecosistema di microimprese indipendenti fortemente distribuito e che ha nel radicamento nelle comunità la chiave del suo successo nel rapporto con i clienti. Avamposti certamente, ma sempre più rilevanti per quei settori – l’assistenza e la cura, il turismo, la produzione e la distribuzione del cibo di ultimo miglio, i nuovi modelli di abitare – che vivranno nel postcovid l’esperienza di non potere prescindere, per il proprio successo, dalla prossimità, dal radicamento e dalla capacità di produrre e restituire valore nei luoghi e ai luoghi attraverso le comunità.
È a questi modelli che la politica ricca dei prossimi mesi dovrà guardare e con umiltà predisporsi ad agire, non per questi protagonisti ma attraverso questi protagonisti.
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