Green senza diseguaglianze
by Mario Calderini
Questa settimana, a Glasgow, la politica proverà ancora una volta a trovare una convergenza sulle azioni da mettere in atto per contrastare il cambiamento climatico e i suoi effetti devastanti. Nel frattempo, 35 mila miliardi di dollari continueranno ad essere investiti in imprese e progetti scelti secondo criteri che, sulla carta, dovrebbero concorrere agli stessi obiettivi che verranno discussi a Glasgow ed invece sono viziati da elementi che rischiano di rendere vano ogni sforzo politico.
Su questo fronte, i grandi leader del mondo si ritroveranno in Scozia con una novità sgradevole. La grammatica che chiamiamo criteri ESG, con la quale misuriamo le prestazioni ambientali e sociali delle imprese e dei portafogli finanziari e consideriamo una preziosa alleata per uno sviluppo più sostenibile, non solo è fragile e incoerente (questo lo sapevamo da tempo), ma incorpora alcune caratteristiche che riflettono e amplificano le deviazioni del sistema capitalistico, invece di correggerle.
Una in particolare, riflessa limpidamente nell’intervista del presidente Sànchez a Repubblica, è quella di dover conciliare la transizione ecologica con elementi di giustizia sociale.
Se leggiamo il problema della cosiddetta transizione giusta dentro il quadro definito dagli ESG, vediamo che quella grammatica è fatta da una E (di ambientale) molto grande, rispetto a una S (di sociale) sproporzionatamente piccola e terribilmente mal misurata. Le ragioni sono facilmente comprensibili: la E è più facile da misurare quantitativamente ed è relativamente poco rivale agli obiettivi di profitto e rendimento e per questo molto meno sgradita ai grandi operatori finanziari e alle imprese. La S di sociale è invece complessa da misurare e spesso direttamente conflittuale con gli obiettivi di profitto. Per questo, i mercati finanziari trovano conveniente vestire di verde i propri propositi di sostenibilità, sbarazzandosi di tutto ciò che ha a che fare con disuguaglianze, esclusione e povertà.
Una strategia esplicita che si è sviluppata in due fasi, prima tentando di far sparire la S dalla narrativa e dalle metriche di sostenibilità, poi cercando di misurare la S nel modo più innocuo possibile: riferendosi a obiettivi di livello talmente alto (l’adesione alla dichiarazione dei diritti universali dell’uomo) o talmente piccoli (la palestra per i dipendenti in azienda) da essere in entrambi i casi irrilevanti e non conflittuali rispetto alle strategie di profitto. Questo modo bipolare di tener conto degli aspetti sociali lascia scoperta una terra di mezzo enorme, dentro cui stanno gli obiettivi di riduzione delle diseguaglianze sociali e territoriali, i rapporti con le comunità, l’inclusione degli svantaggiati e in generale tutto ciò che ha a che fare con forme strutturali di uguaglianza e giustizia. I criteri ESG sono preziosi, ma se non si affronta seriamente la questione delle metriche, gli ESG così come li conosciamo oggi, fragili, casuali, dilaniati da battaglie interne tra diversi standard e strabici, non guideranno i mercati verso una transizione giusta oltre che verde. C’è un secondo fronte aperto questa settimana, a Bruxelles oltre che a Glasgow. Lì la Commissione Europea sta macchinosamente cercando di rimediare al ritardo con il quale ha messo mano alla cosiddetta social taxonomy, la tassonomia con cui si regolamenta la definizione della S, così come era stato fatto colpevolmente solo per la E già qualche anno fa, a dimostrazione di quanto sopra. Sulla proposta di tassonomia oggi in consultazione ci sono fortissime pressioni dal mondo finanziario e industriale per rendere la misura della S la più sciatta possibile. Anche su questo si gioca la possibilità di affrontare seriamente la questione del rapporto tra contrasto al cambiamento climatico e giustizia sociale ed in ultima analisi la speranza che dopo Glasgow ci si metta seriamente in cammino.°RIPRODUZIONE RISERVATA