La vera ricchezza è far star bene tutti,
by Enrica BrocardoGrazia, 20th October 2021
Docente di management al Politecnico di Milano, e anche divulgatore, Mario Calderini è uno dei massimi esperti italiani di finanza d’impatto: un modo di investire denaro che ha come obiettivo principale non l’ottimizzazione dei guadagni, ma il miglioramento delle condizioni di vita delle persone.
Nei prossimi decenni la finanza d’impatto potrebbe avere ricadute importanti sul benessere sopratutto di chi vive nei grandi centri urbani. «Perché le città sono concentrati di opportunità, ma anche di problemi sociali che derivano dal fatto che sono aree densamente abitate», dice. «In passato, la gestione di queste criticità veniva affidata all’intervento pubblico – non sempre con risultati incoraggianti – oppure alla volontà filantropica di privati disposti a devolvere denaro a fondo perduto».
La finanza d’impatto, invece, come funziona?
«Riempie un vuoto: quella terra di nessuno che si trova tra finanza speculativa, mirata al guadagno, e filantropia. In pratica, si tratta di investire il denaro di persone che sono interessate, da un lato, a mantenere il capitale intatto e, possibilmente, guadagnare anche un po’, dall’altro ad avere anche un “rendimento sociale”. Sono disposti a rendimenti a volte più bassi, perché il loro obiettivo primario è risolvere un problema che riguarda la società, la collettività. Non a caso gli interessi sono legati ai risultati positivi che vengono raggiunti».
Può fare un esempio?
«Si può investire sulla riduzione della dispersione scolastica, un problema molto attuale purtroppo, perché, tra le conseguenze della pandemia, c’è stato un aumento del numero di ragazze e ragazzi che hanno abbandonato gli studi. Il denaro viene investito in imprese e iniziative sociali che combattono questo fenomeno e il rendimento dipende, per esempio, da quanti giovani riprendono a studiare».
Ci sono città in cui è stato fatto e ha funzionato?
«Per esempio, a Liverpool c’era un problema di scarsa mobilità verticale. In sostanza, i figli delle famiglie meno abbienti faticavano a continuare gli studi e, di conseguenza, a trovare un posto di lavoro. Per anni lo Stato aveva cercato di rimediare con corsi di formazione, agenzie interinali, ma senza ottenere buoni risultati. La soluzione è stata investire in una cooperativa sociale, che ha organizzato corsi per insegnare ai giovani a parlare in modo assertivo, con lo stesso meccanismo usato per ridurre la dispersione scolastica: il rendimento dipendeva dall’ottenimento del risultato».
Sono risultati difficili da misurare. Come ci si riesce?
«Il nodo centrale sta nella disponibilità di dati. In effetti, quando parliamo di investimenti in ambito sociale, il problema è proprio che mancano le informazioni, i numeri. Oggi, la finanza d’impatto sta funzionando bene nel settore ambientale, come per la raccolta differenziata dei rifiuti o per il miglioramento della qualità dell’aria delle città, proprio perché i dati sono disponibili e misurabili più facilmente. Inoltre, gli effetti degli interventi messi in atto sono visibili immediatamente. Avere dei risultati che si vedono nel breve periodo è fondamentale. In una città degli Stati Uniti, per esempio, si è tentato di investire sulla prevenzione delle gravidanze indesiderate delle minorenni, ma l’esperimento è fallito perché le ricadute sociali di un intervento di questo tipo si manifestano a distanza di oltre un decennio, un periodo troppo lungo».
Qual è il ruolo delle amministrazioni pubbliche, dello Stato e delle città?
«Creare sistemi per la raccolta e la diffusione di dati per ovviare al problema della misurabilità dell’impatto sociale degli investimenti. E mettere a disposizione una parte del denaro necessario, che sarà recuperato in forma di risparmio sulla spesa pubblica negli anni a venire».
In che modo?
«In Israele per ridurre la diffusione del diabete, gli investitori d’impatto hanno finanziato alcune imprese sociali impegnate nel promuovere una corretta alimentazione, attività sportiva e così via. In seguito ai risultati ottenuti, in particolare la diminuzione dei ricoveri, sono stati remunerati con denaro pubblico. Gli stessi soldi che lo Stato avrebbe risparmiato in futuro grazie alla riduzione delle spese della sanità».
In Italia si è già fatto qualcosa di simile?
«Ad esempio il governo ha messo a disposizione un fondo da 30 milioni di euro per progetti sociali nei capoluoghi di provincia. Si sono candidate 150 città e ne sono state scelte circa una ventina, tra cui Torino, che ha presentato un piano sull’emergenza abitativa, e Brindisi che, invece, ha messo a punto un progetto per favorire l’educazione scolastica. Eppure ci sarebbero anche molti privati disposti a investire capitali, quello che manca sono le iniziative a impatto sociale nelle quali investire».
Com’è possibile?
«Colpa, in parte, di un grande equivoco: pensare che le tecnologie avrebbero reso i centri urbani più intelligenti e vivibili. Si è puntato molto sulle cosiddette smart city, peccato che un’ampia fetta di popolazione non ne abbia tratto vantaggio. Quello che succede è in realtà proprio il contrario: le tecnologie creano una segmentazione elitaria, sono spesso poco inclusive».
Perché?
«Prendiamo il car sharing, che abbiamo celebrato come una grande innovazione perché riduce il traffico e le emissioni di C02. Tutto vero, ma non risolve i problemi di chi vive nelle periferie, dei disabili e di chi non ha accesso alla tecnologia che rende possibili servizi di questo tipo».
Quindi la finanza d’impatto dovrebbe puntare alle questioni sociali più che ambientali delle città?
«Assolutamente no. Il punto, semmai, è che sappiamo già come rendere i centri urbani più “ecologici” e i grandi capitali investono già nell’ambito dell’economia circolare o delle fonti energetiche alternative perché i margini di guadagno sono ragionevolmente alti. Siamo invece molto indietro rispetto alle questioni sociali e in generale all’inclusione».
In questa sfida che ruolo gioca il Recovery Fund?
«Sulla carta sarebbe uno strumento perfetto perché, diversamente da tutti gli altri fondi europei, “paga” sulla base dell’impatto sociale e ambientale ottenuto dall’investimento. Il problema è che non mi sembra che le amministrazioni siano pronte a ragionare in questi termini».
È utopistico pensare, un giorno, di poter calcolare il livello di felicità dei cittadini e, quindi, investire per accrescerlo?
«È difficile rispondere a una domanda del genere. Intanto, che cos’è la felicità collettiva? Però ritengono fondamentale che, negli ultimi dieci anni, in economia si sia cominciato a discutere di temi di questo tipo. Al concetto di PIL, il prodotto interno lordo, è stato affiancato quello di BES: benessere equi e sostenibile. Questo nuovo indice include anche indicatori legati al benessere immateriale e questo mi sembra già un passo nella direzione giusta».