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Imprese e green transition, l’europa boccia il decreto gli errori e le lobby contro
by Mario Calderini
Corriere della Sera, 5th March 2024
Era del tutto prevedibile che l’enfatica ricerca della sostenibilità nell’industria, esaurita la fase dei facili entusiasmi e della comunicazione istituzionale, si schiantasse al primo vero confronto con la realtà. Altrettanto probabile era che questo sarebbe avvenuto nel momento in cui la dimensione sociale della sostenibilità integrale, con i relativi costi associati, avrebbe cominciato ad affacciarsi seriamente nel panorama legislativo e regolamentare della Commissione Europea. Ed infatti è successo, nel modo più fragoroso possibile, con la non approvazione, da parte degli Stati membri dell’Unione Europea, della Corporate Sustainability Due Diligence Directive (Csddd). La Direttiva, oggettivamente molto impegnativa, avrebbe obbligato le imprese a farsi carico responsabilmente degli impatti sociali e ambientali della propria catena di approvvigionamento, dai fornitori ai partner. Si trattava, tra le altre cose, di rispetto dei diritti umani e delle condizioni di lavoro. Il brusco stop, pur tecnicamente temporaneo, è un passaggio quasi irreversibile vista la prossima scadenza elettorale.
Le ragioni per questo improvviso bagno di realtà sono molteplici. Di certo la Direttiva è finita nel mezzo di un complesso gioco di negoziazioni su molteplici tavoli, dove la posizione degli Stati Membri è stata dettata più da tatticismi e questioni di politica interna che da valutazioni di merito. Altrettanto chiaramente c’è stata la presa di posizione di una lobby estremista del mondo industriale che ha fortemente avversato la Direttiva. Il tutto, come hanno giustamente scritto Davide Dal Maso e Fulvio Rossi, nel silenzio inspiegabile del sindacato.
Vi sono tuttavia ragioni più politiche e quindi rilevanti per le prossime elezioni. La bocciatura è figlia di un errore politico della Commissione e dell’asse Von der Leyen-Timmermans, quello di aver costruito una narrativa politica completamente schiacciata sulla green transition , confinando la transizione sociale e industriale a un ruolo accessorio e in questo modo regalando un’enorme occasione di costruzione di consenso al populismo conservatore. Pur mantenendo imperativo l’obbligo di percorrere la strada della transizione verde e del contrasto al cambiamento climatico, non era difficile immaginare che proprio quest’ultima sarebbe stata determinata dalla capacità di portare a bordo della transizione green la grande parte della base sociale e industriale dell’Unione. Rispetto alla base sociale, troppo poco è stato fatto per convincere i cittadini europei che sia i costi della transizione sia soprattutto il dividendo della cosiddetta crescita verde sarebbero stati equamente ripartiti. Al contrario, il sospetto di elitarismo della green transition non è mai stato del tutto fugato nella testa dei cittadini. Qualche episodio a favore di questo sospetto in effetti c’è stato. Ad esempio, la recente bocciatura della Direttiva ha un antecedente importante nell’affossamento della Tassonomia Sociale da parte delle lobby finanziarie,
quando invece la Tassonomia Verde era stata serenamente approvata e celebrata. Così come la struttura e il racconto del Recovery Plan (e del Pnrr in Italia) hanno relegato l’inclusione sociale a tema ancillare e accessorio, quasi una tassa da pagare per il via libera a un disegno di prosperosa crescita, certamente verde e digitale, ma dai fondamenti economici non meglio precisati.
Per esempio, non proprio infondato è il sospetto che nel Pnrr certe questioni care alle grandi ex partecipate di Stato e ammantate di verde abbiano pesato più delle voci che chiedevano il finanziamento per gli asili nido.
Ma l’aspetto più grave, in Europa soprattutto in alcuni Stati membri tra cui l’Italia, è stato l’illusione che la green transition potesse da sola riempire il vuoto lasciato dall’assenza di una politica industriale autonoma; in altre parole, che la green transition potesse coincidere essa stessa con la politica industriale europea e in qualche modo surrogarla. La green transition è un obiettivo chiaro e imprescindibile ma non può sostituire quell’insieme di azioni che costruiscono dal basso la competitività industriale di un continente: la ricerca, la formazione, l’innovazione, le infrastrutture, le regole competitive. L’essersi dimenticati di questo non giustifica la bocciatura ma certamente spiega le ragioni per cui i cittadini, i lavoratori e le imprese responsabili dell’Unione non hanno sentito la bocciatura della Direttiva come un attacco diretto ai loro diritti ma anche a quelli dei lavoratori meno fortunati in altre parti del mondo.
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