Tenere unite economia e società
by Mario Calderini
Le politiche italiane ed europee per il Recovery Fund
Lo schema è quello già visto troppe volte. Prima trapela una lista di progetti bizzarri, poi arrivano le grandi idee, come il ponte sullo stretto; se la situazione degenera, si cerca di ricostruire un minimo di dignità strategica con un documento scolastico scopiazzato dall’Europa ed infine, quando si è finalmente ottenuto l’obiettivo di essere in ritardo, si presenta un piano su cui l’opinione pubblica, sfinita dall’attesa e silenziata dall’urgenza, non trova più la forza di dire nulla.
C’è ancora una residua speranza che questa volta non finisca così, per i piani da presentare in Europa per accedere ai miliardi di Next Generation EU. È una speranza legata alla presenza nel governo di alcune (pochissime) personalità politiche in grado di ricordare agli altri che i processi di innovazione sociale e di trasformazione dal basso, insieme all’imprenditorialità individuale e alla forza del mercato, sono risorse imprescindibili per gestire la complessità delle trasformazioni radicali che ci attendono.
La fiducia nelle comunità, il valore della partecipazione, la potenza che mercato e società insieme sanno sprigionare, sono l’unico antidoto al veleno di una cultura politica ormai ostaggio del culto del decreto come soluzione unica ai problemi, di un dilagante determinismo amministrativo e di un pericoloso negazionismo politico che porta alla rimozione di qualunque dimensione di complessità dai problemi e dagli strumenti necessari a risolverli.
Nella riscoperta del senso e del ruolo dell’innovazione sociale, l’Italia trova in questo momento un alleato naturale nell’Europa. Proprio questa settimana, con una serie di incontri scientifici e politici, la Commissione Europea riprende la propria road to Mannheim, che porterà nel 2021 al lancio del Action Plan for Social Economy, che pone l’economia e l’imprenditorialità sociale al centro della recovery strategy europea.
La fiducia nelle comunità, il valore della partecipazione, la potenza che mercato e società insieme sanno sprigionare, sono l’unico antidoto al veleno di una cultura politica ormai ostaggio del culto del decreto come soluzione unica ai problemi, di un dilagante determinismo amministrativo e di un pericoloso negazionismo politico che porta alla rimozione di qualunque dimensione di complessità dai problemi e dagli strumenti necessari a risolverli.
L’idea è di attribuire all’impresa sociale un ruolo non solo di welfare e redistributivo, ma anche industriale e di sviluppo economico. Non per caso, la Commissione Europea inserisce la Proximity and Social Economy tra i quattordici cluster industriali su cui si basa il rilancio della crescita in Europa. Per intenderci, vicino al cluster farmaceutico, elettronico e automobilistico. È un’intuizione politica semplice quella di considerare la social and impact economy nel perimetro delle politiche industriali per una crescita più equa e inclusiva, che vale per il mezzogiorno come per le città post-industriali del nord. Richiede tuttavia un salto di paradigma politico, riscoprendo il valore dei processi trasformativi dal basso e scegliendo come unità di azione politica gli ecosistemi locali, nel quadro di un disegno nazionale. Un quadro nel quale le forze dell’iniziativa individuale e dell’imprenditorialità sociale possano incontrare adeguate opportunità tecnologiche, forme virtuose di finanza e dotazioni infrastrutturali. È soprattutto una via alle politiche di coesione alternativa a quel delirio tecno-finanziario che ha voluto rappresentare il sud d’Italia come un insieme di Silicon Valley inspiegabilmente inespresse.
Se è vero che i ministri Manfredi e Provenzano stanno lodevolmente pensando ad ecosistemi di innovazione per il Sud, sarebbe bello che ciò intersecasse profondamente la via europea alla social economy, pensando a forme specifiche di trasferimento tecnologico verso le imprese sociali e il terzo settore ed insieme riconoscendo il valore della finanza d’impatto per la crescita di imprese che siano insieme sociali e tecnologiche. Potremmo così forse inaugurare una nuova stagione di politiche di coesione ed un recovery plan all’altezza dei nostri problemi e del nostro ruolo in Europa.