by Mario Calderini
La Repubblica, 15th September 2020
Le parole spesso dicono moltissimo e la pervicacia con cui in Italia si continua a chiamare Recovery Fund quello che in Europa tutti chiamano Next Generation EU è la miglior sintesi possibile della confusione e della miopia che caratterizza la stesura del documento che l’Italia dovrebbe consegnare alla Commissione Europea per accedere agli ingenti stanziamenti previsti. Documento che tutti speriamo non sia neppure lontano parente di quella informe lista di progetti che circola in queste ore e che è francamente troppo brutta per essere vera. Next Generation EU è un nome che è stato scelto dalla Commissione per rappresentare un principio molto semplice: stiamo prendendo a prestito risorse dalle generazioni future ed abbiamo l’imperativo morale non solo di usarle al meglio ma anche di investirle con un orizzonte di medio lungo termine, affinché il dividendo economico e sociale ritorni nelle tasche di chi ci ha prestato i soldi, le generazioni future. Esattamente ciò che Ursula von der Leyen era venuta a dire agli Stati Generali di Roma, in tono molto più duro di quello che i nostri politici hanno voluto lasciar intendere. O anche quello che Mario Draghi ha voluto dire con la felice espressione sul debito buono e il debito cattivo.
La lista di progetti che circola è troppo brutta per essere vera. Le risorse devono essere investite secondo un piano strategico credibile che guardi all’Italia di domani
Qui invece lo chiamiamo Recovery Fund, quasi a voler dire: il nostro compito è riportare la situazione a Febbraio, perché in fondo non si stava poi così male e ciascuno aveva ancora la sua piccola o grande rendita di posizione da godersi. Idea sbagliata due volte: in primo luogo perché a Febbraio c’era un sacco di gente che rendite di posizione non ne aveva affatto, in secondo luogo perché indietro non si torna, neppure volendolo. Nessuno sa come sarà il futuro, ma proprio per questo, agire secondo i soliti schemi e con gli stessi interlocutori non può funzionare. La cosa che fa più inorridire di quella lista non è tanto l’assurdità e l’inconsistenza di certi progetti ma il metodo politico che evidentemente traspare, quello di svuotare i cassetti dei Ministeri, delle Amministrazioni locali e delle partecipate di Stato, di raccogliere le idee estemporanee di pezzi disarticolati dei corpi intermedi o di consiglieri e consulenti che si trovano ad avere per ventura un pezzettino di palcoscenico in questo momento. Tutti in buonafede e magari anche capaci, ma ciascuno con davanti la propria parzialissima visione del problema generale. Ed alla fine il problema è proprio questo: nessuno si scandalizzerebbe di quella lista se fosse stata preceduta da un piano strategico credibile, espressione di una chiara visione del futuro del Paese, magari inclusivo e solidale, come hanno fatto da tempo altri grandi Paesi Europei. Ed invece per adesso abbiamo vuote evocazioni del cosiddetto green new deal, salvifiche infrastrutture e immancabili appelli alla digitalizzazione. Espressioni buone per ogni epoca, che però non fanno un piano. Ed allora potremmo anche far finta di non averla vista quella lista, o di considerarla un documento di lavoro, a tre condizioni. La prima è che a breve compaia un piano strategico degno del nome Next Generation. La seconda è che si disintermedino i soliti interlocutori inaugurando un metodo partecipativo e inclusivo che inneschi le migliori energie del Paese. La terza è che venga imposta la clausola dell’articolo zero: aprire ciascun provvedimento con un articolo nel quale si espliciti chiaramente e si dimostri credibilmente quale sia l’ipotesi di processo trasformativo con cui si ritiene che proprio quel progetto, e non altri, generi valore ed abbia un impatto positivo in un orizzonte temporale compatibile con le aspettative delle bambine e dei bambini che ci stanno prestando i soldi.